NUMERO VERDE AVVOCATI

Home » 2013

Yearly Archives: 2013

No al mantenimento della figlia trentenne fuori corso Corte di Cassazione – Sezione I civile – Sentenza 6 dicembre 2013 n. 27377

Il padre non è tenuto a pagare l’assegno di mantenimento per la figlia più che trentenne, proprietaria anche di beni personali, che continua a frequentare l’università in qualità di studente fuori sede e che senza un giustificato motivo ritarda nel conseguimento del titolo di studi, senza preoccuparsi di cercare un lavoro. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 27377/2013.

La vicenda
Il caso riguardava la richiesta dell’assegno di mantenimento per la figlia delle parti, formulata dalla moglie nell’ambito di un procedimento di separazione tra coniugi. Tale richiesta veniva respinta sia in primo che in secondo grado sulla base della comprovata colpa della figlia per non aver conseguito in tempi ragionevoli la laurea e non essersi procurata un’autosufficienza economica.

Nel ricorre in Cassazione, la moglie lamentava sotto questo profilo una violazione del principio di diritto “che impone al genitore, che voglia disassoggettarsi all’obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne, di provare la colpa di quest’ultimo nel procurarsi il reddito e/o l’autosufficienza”, ed inoltre la non adeguata considerazione da parte dei giudici di merito dello stato avanzato degli studi della figlia, nonché della riconducibilità del ritardo stesso ai disagi sofferti a causa della crisi familiare.

Le motivazioni
La Cassazione conferma la decisione della corte territoriale in relazione all’esclusione dell’obbligo di mantenimento della prole maggiorenne della coppia in capo al marito e ritiene logica e coerente la decisione dei giudici di merito, in quanto “la figlia era ormai ultratrentenne nonché dotata di patrimonio personale e ciò nonostante, ancora dedita, a spese del padre, agli studi universitari in sede diversa dal luogo di residenza familiare, senza avere ingiustificatamente né conseguito alcun correlato titolo di studio né trovato, al pari del fratello minore, una pur possibile occupazione remunerativa”.

fonte:Il Sole 24 Ore

Colpevole la madre separata che si trasferisce in altra regione Corte di cassazione – Sezione VI penale – Sentenza 23 ottobre 2013 n. 43292

Viola le disposizioni del giudice la madre separata di una bambina di otto mesi che si trasferisce in Sicilia in cerca di un lavoro mentre un provvedimento del tribunale di Trento aveva collocato la minore presso l’ex abitazione coniugale a Capriana (Tn) stabilendo il diritto di visita anche infrasettimanale del padre. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 43292/2013, dichiarando inammissibile il ricorso della madre.

Per la Suprema corte, infatti, “l’elusione dell’esecuzione di un provvedimento del giudice civile che riguardi l’affidamento di minori può concretarsi in un qualunque comportamento da cui derivi la ‘frustrazione’ delle legittime pretese altrui, ivi compresi gli atteggiamenti di mero carattere omissivo, quando questi siano finalizzati ad ostacolare ed impedire di fatto l’esercizio del diritto di visita e di frequentazione della prole (cfr. in termini: cass. pen. sez. 6, 33719/2010, fattispecie in cui vi erano stati frequenti e non comunicati spostamenti dei luogo di dimora senza preavviso al marito separato non affidatario)”.

fonte: Il Sole 24 Ore

Forma snella per l’accordo patrimoniale dei coniugi in favore dei figli Corte di cassazione – Sezione II civile – Sentenza 23 settembre 2013 n. 21736

L’accordo tra coniugi in sede di separazione che prevede il trasferimento di immobili anche ai figli ha natura solutoria e non necessita della forma prevista per le donazioni. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 21736/2013.

La Suprema corte ha dunque condiviso il ragionamento della Corte di appello che ha esaminato la convenzione intervenuta tra i coniugi con la scrittura privata dei 23 novembre 1996 (omologato il verbale di separazione il 15 aprile 1997) ed ha affermato che “tale convenzione non poteva ritenersi nulla per carenza di forma prevedendo il trasferimento, a titolo gratuito, di un cospicuo patrimonio ai figli proprio perché garantiva, nel comune intento delle parti, l’interesse preordinato al conseguimento di un risultato solutorio degli obblighi di mantenimento dei figli gravante sul genitori, né appariva in contrasto con norme imperative di legge o con diritti indisponibili dei due coniugi”.

“D’altra parte – prosegue la sentenza – questa Corte ha reiteratamente affermato che l’obbligo di mantenimento dei figli minori o maggiorenni non autosufficienti, può essere adempiuto dai genitori in sede di separazione personale o divorzio (id est: di cessazione degli effetti civili del matrimonio) mediante un accordo […] il quale, anziché attraverso una prestazione patrimoniale periodica, od in concorso con essa, attribuisca o li impegni ad attribuire ai figli la proprietà di beni mobili od immobili, e che tale accordo non realizza una donazione, in quanto assolve ad una funzione solutoria- compensativa dell’obbligazione di mantenimento, in quanto costituisce applicazione del principio, stabilito dall’art. 1322 c.c., della libertà dei soggetti di perseguire con lo strumento contrattuale interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.

In tale caso – concludono i giudici – l’accordo comporta l’immediata e definitiva acquisizione al patrimonio dei figli della proprietà dei beni che i genitori, od il genitore, abbiano loro attribuito o si siano impegnati ad attribuire e, in questo secondo caso, il correlativo obbligo, sanzionato in forma specifica dall’art. 2392 c.c., trova il suo titolo nell’accordo che estingue la prestazione di mantenimento, nei limiti costituiti dal valore dei beni attribuiti o da attribuire, convenzionalmente liquidata e sostituita dall’impegno negoziale de quo”.

fonte: Il Sole 24 Ore

La casa coniugale non può costituire una misura assistenziale Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 1° agosto 2013 n. 18440

L’assegnazione della casa coniugale non può costituire una misura assistenziale per il coniuge economicamente più debole, ma può disporsi a favore del genitore affidatario esclusivo ovvero collocatario dei figli minori, oppure convivente con figli maggiorenni ma non autosufficienti economicamente (convivente con figli maggiorenni ma non autosufficienti economicamente (e ciò pur se la casa stessa sia di proprietà dell’altro genitore o di proprietà comune). Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 18440/2013, respingendo il ricorso della donna e stabilendo che siccome “non vi sono figli minori o maggiorenni autosufficienti economicamente … del tutto correttamente, il giudice a quo ha revocato l’assegnazione della casa coniugale alla moglie”.

fonte: Il Sole 24 Ore

L’età del figlio non può costituire di per sé una soglia per l’assegno di mantenimento Corte di cassazione – Sezione I civile – Sentenza 10 luglio 2013 n. 17089

La rivisitazione dell’assegno alla ex moglie a seguito del riconoscimento dell’addebito non può riguardare anche la figlia il cui mantenimento deve sempre ancorarsi alle possibilità del genitore e non alle generiche esigenze della fase evolutiva della bambina. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 17089/2013.

La Suprema corte ha ricordato infatti che “a seguito della separazione personale continua a trovare applicazione l’art. 147 cod. civ. che imponendo ai genitori il dovere di mantenere istruire ed educare i figli, obbliga i coniugi a far fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all’assistenza morale e materiale ed all’opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione. Poiché, peraltro, lo standard di soddisfazione ditali esigenze è correlato anche al livello economico sociale del nucleo familiare, il parametro di riferimento, ai fini della quantificazione del concorso nei predetti oneri, è costituito non soltanto dalle esigenze dei figli, ma anche dalle sostanze e dai redditi, nonché dalla capacità di lavoro, professionale o casalingo, di ciascun coniuge”.

“Tali criteri – conclude la Corte – non possono ritenersi rispettati dalla sentenza impugnata, la quale ha apoditticamente definito ingiustificata in rapporto alle esigenze connesse all’età della figlia, la misura dell’assegno di mantenimento che il Tribunale aveva posto a carico del padre, astenendosi dal valutare il grado di soddisfazione di tali necessità di cui la minore aveva fruito nel corso della convivenza”.

La Corte d’Appello, infatti, non ha svolto alcuna indagine in ordine alle risorse patrimoniali e reddituali disponibili da parte dei coniugi ed alla loro capacità di lavoro, determinando l’assegno in una misura da essa astrattamente ritenuta congrua.

fonte: Il Sole 24 Ore

Separazione: la conoscenza del “tradimento” non giustifica l’addebito Corte di cassazione – Sezione VI civile – Sentenza 19 febbraio-27 giugno 2013 n. 16270

Non può essere inflitta la separazione con addebito alla moglie quando il marito era a conoscenza dei tradimenti del coniuge senza che questo però fosse stato considerato con sicurezza l’elemento di rottura del matrimonio: è questa la concluzione a cui è giunta la sesta sezione della Cassazione con la Sentenza 19 febbraio-27 giugno 2013 n. 16270.

La vicenda
Nell’ambito di un procedimento di separazione la Corte d’appello, con sentenza, confermava la decisione del Tribunale con la quale si era pronunciata sulla separazione personale dei due coniugi, con affidamento condiviso dei figli, collocati presso il padre, assegnatario della casa coniugale e obbligato al loro mantenimento. Nella decisione dei giudici di primo grado Venivano, infatti, rigettate le impugnazioni rispettivamente proposte dai coniugi, rilevandosi, quanto alla domanda di addebito, già rigettata, e riproposta dal marito, che l’infedeltà della moglie non avesse avuto incidenza causale sulla crisi coniugale, avendo il marito dichiarato, all’udienza presidenziale, di essere disposto a conciliarsi con la moglie. A tal proposito, la corte territoriale aveva ritenuto che la mera inosservanza da parte della moglie dell’obbligo di fedeltà coningale non avesse deteiminato la crisi del rapporto coniugale, in quanto il marito in sede di audizione all’udienza aveva dichiarato di essere disposto riconciliarsi nonostante il tradimento.

Le motivazioni della Suprema corte
Secondo la Cassazione, se “da un lato appare corretto orientare l’indagine nel senso di verificare se l’infedeltà della moglie ebbe effettiva incidenza causale sulla crisi del matrimonio, non va omesso di considerare che una generica affermazione di volontà riconciliativa, la quale di per sé non elide la gravità del vulnus subito, e che, in ogni caso, costituisce un posterius rispetto alla proposizione della domanda di separazione, con richiesta di addebito, proprio per aver scoperto l’adulterio, in tanto può assumere valore in quanto determini un effettivo ristabilimento dell’armonia coniugale”. In conclusione, i giudici hanno accolto il ricorso della moglie, perché non era possibile configurare l’addebito in presenza di una semplice richiesta di riconciliazione.

fonte:Il Sole 24 Ore

Responsabilità medica, decesso del feto, negligenza, imprudenza, linee guida, irrilevanza Cassazione penale , sez. IV, sentenza 11.03.2013 n° 11493

In tema di responsabilità medica, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve prevista dall’art. 3 del D.L. 13 settembre 2012, n. 158 (conv. in legge 8 novembre 2012, n. 189), opera soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia, ma non si estende agli errori diagnostici connotati da negligenza o imperizia. (Fattispecie nella quale, in relazione al decesso del feto provocato dal ginecologo per la mancata esecuzione di un intervento di parto cesareo, la S.C. ha ritenuto irrilevanti le linee guida amministrative contenenti i criteri di scelta tra parto naturale e taglio cesareo ma riguardanti il solo profilo della perizia). (1-2)

Fonte: CED Cassazione

Niente assegno per l’ex moglie facoltosa

Perde l’assegno la moglie ricca in grado di mantenere autonomamente un alto tenore di vita, se non riesce a dimostrare che durante il matrimonio la sua esistenza trascorreva tra viaggi, vacanze e teatri.
La Corte di cassazione (12764), si allinea a quanto stabilito dalla Corte d’Appello, e taglia alla ex moglie la cifra di 2.500 euro al mese, concessi in suo favore dal tribunale di primo grado.
Nella loro decisione i giudici di prima istanza avevano seguito il solco della giurisprudenza della Cassazione (2747/2011) che affermava il diritto della moglie facoltosa separata o divorziata a intascare comunque una cifra mensile dall’ex marito se più ricco di lei. A far la differenza con il caso esaminato è la mancanza della prova che, nella sua “second life”, la signora stesse peggio che nel corso del matrimonio.
La vicenda ha dato parecchio da fare ai giudici, visto che la causa ha fatto una “navetta” di cinque passaggi.
Il cammino giudiziario inizia con il via libera del tribunale all’assegno, contestato in appello dal marito con successo.
I giudici di secondo grado avevano osservato che la signora, titolare di un notevole patrimonio, finché era stata con il consorte aveva goduto certamente di un tenore di vita alto ma non “particolarmente brillante”, fatto di vacanze e prime teatrali.
A far ricorso in Cassazione contro la revoca dell’assegno questa volta è la moglie separata a cui, in prima battuta la Suprema corte offre una sponda.
I giudici di legittimità trovano, infatti, non «congruo il rilievo dato dall’impugnata sentenza alla distinzione tra “alto tenore di vita” e un “brillante tenore di vita”».
Per la Cassazione la partita non può essere giocata sulle definizioni, senza accertarsi concretamente dell’effettivo cambiamento delle abitudini. Per questo la Suprema Corte rispedisce la causa ai giudici di seconda istanza, invitandoli a fare maggiori verifiche per scoprire se effettivamente la ricorrente aveva dovuto rinunciare a una sorta di “dolce vita”. La Corte d’Appello conferma che la signora da sola può condurre la stessa esistenza agiata di prima. In Cassazione, la conferma dell’orientamento della Corte d’Appello e la revoca dell’assegno.

fonte: IlSole 24 Ore

Separazione e divorzio, le differenze nella determinazione dell’assegno

Le disposizioni sostanziali a cui prioritariamente è necessario far riferimento sono quelle dettate dall’art. 156 c.c. per la separazione e dall’art. 5, dal comma VI° al comma XI°, della legge n. 898/1970 per ciò che riguarda il divorzio.

Indiscutibilmente diversi in queste disposizioni si presentano i presupposti, la natura, le finalità ed i parametri di riferimento per la determinazione dell’an e del quantum delle corresponsioni economiche concernenti rispettivamente la separazione ed il divorzio. Infatti, seppure dalla giurisprudenza in materia si può trarre come, spesso e volentieri, le valutazioni dei giudici seguano criteri ed indirizzi comuni per la determinazione di tali corresponsioni tuttavia, come la Corte di Cassazione[1] ha recentemente ricordato, i due istituti sono diversi e quanto stabilito dal giudice in relazione all’assegno di mantenimento nella separazione non limita e non vincola affatto la discrezionalità dell’autorità successiva nella determinazione dell’assegno divorzile seppur, ovviamente, ciò non vuol dire che non se ne possa legittimamente tener conto[2].

Separazione, la determinazione dell’an e del quantum
Per quanto concerne la separazione l’art. 156 c.c., ai commi 1 e 2, individua i presupposti ed i parametri per la fissazione dell’assegno, ovvero da una parte il mancato addebito della separazione al coniuge richiedente la corresponsione economica a suo favore e l’assenza di ”adeguati redditi propri”, al fine dell’accertamento dell’an dell’assegno, e dall’altra ”le circostanze” ed ”i redditi dell’obbligato”, al fine della determinazione del quantum. La dottrina e soprattutto la giurisprudenza si sono dovute impegnare a riempire di contenuto concreto tali parametri, onde consentirne la corretta utilizzazione e comprensione ma non mancano tuttora, come per ogni istituto giuridico, opinioni ed indirizzi a volte minoritari e divergenti.

Il criterio dell’inadeguatezza dei redditi
In termini generali, comunque, per quanto concerne i presupposti sulla base dei quali il giudice è chiamato a verificare l’effettiva sussistenza del diritto del coniuge richiedente alla corresponsione economica in questione ovviamente la non addebitabilità della separazione non richiede particolari spiegazioni, al contrario l’inadeguatezza dei redditi necessita di una più chiara definizione.

Fondamentale, infatti, è comprendere, anche e soprattutto ai fini dell’istruttoria in giudizio, quale sia il parametro alla luce del quale valutare tale inadeguatezza dei redditi. La giurisprudenza, in modo nettamente prevalente e costante, evidenzia come il riferimento debba essere al ”tenore di vita tenuto dai coniugi prima della separazione” inteso quale ”standard di vita reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche”[3] di questi. La giurisprudenza, inoltre, sottolinea da sempre come il diritto all’assegno di mantenimento abbia fondamento e caratteri nettamente diversi dal diritto agli alimenti e tra le altre cose, infatti, non richieda affatto che il soggetto economicamente più debole versi in un vero e proprio stato di bisogno, mancando dei mezzi di sostentamento e della possibilità e capacità di procurarseli[4].

Il tenore di vita “potenziale”
L’orientamento maggioritario ritiene che l’autorità giudiziaria non debba individuare tanto il concreto tenore di vita che i coniugi hanno effettivamente mantenuto durante la convivenza, quanto piuttosto quello che potenzialmente sarebbero riusciti a tenere sulla base delle possibilità economiche di entrambi, attraverso le quali contribuire ai bisogni familiari. Eventuali accordi o imposizioni da parte del coniuge più abbiente, tacite o espresse, sul tenore di vita da mantenersi in costanza di matrimonio inferiore alle effettive potenzialità della coppia non dovrebbero, sempre a detta dell’opinione prevalente, assumere rilievo[5].

Il tenore di vita entra anche nell’assegno di divorzio
Il riferimento implicito al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio assume spessore anche in relazione al riconoscimento dell’assegno divorzile, come ha espressamente chiarito la Corte di Cassazione. In una recentissima sentenza, infatti, la Suprema Corte ha ribadito il riferimento al parametro in esame al fine di valutare l’adeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge richiedente o l’eventuale impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive[6], a cui fa riferimento l’art. 5, comma VI°, legge n. 898 del 1970 a seguito della modifica intervenuta con legge n. 74 del 1987.

La “disparità reddituale”
Necessario è specificare che lo stile di vita goduto in costanza di matrimonio opera in stretta connessione con un altro criterio fondamentale, ovvero la sussistenza di una disparità reddituale tra i coniugi che non permette al richiedente, appunto, di conservare il precedente tenore di vita[7].

Una volta verificata la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento è necessario procedere alla determinazione del ”quantum” dello stesso facendo riferimento, come espressamente statuisce l’art. 156 c.c., comma II°, alle ”circostanze e ai redditi dell’obbligato”. Nel riempire di contenuto tali parametri la giurisprudenza prevalente ha chiarito come il concetto di ”redditi” vada interpretato in modo estensivo, in sintonia con l’art. 143 c.c., e quindi con riferimento alla complessiva situazione reddituale-economica del coniuge e come, invece, tanti possano essere gli elementi riconducibili nell’ampio termine di ”circostanze”, tutto dipende, infatti, dalle specificità del caso concreto[8]. In realtà quest’ultimo criterio viene raramente richiamato in modo espresso nelle pronunce dei giudici, dato l’assorbimento che si realizza con tutti gli altri parametri coinvolti nel giudizio.

Sono rilevanti i redditi da lavoro autonomo e dipendente, ma anche la proprietà di immobili e la capacità eventuale degli stessi di costituire una fonte di reddito attraverso una locazione o un’eventuale alienazione, i depositi in denaro, i titoli e la sussistenza di crediti certi, liquidi ed esigibili in capo allo stesso.

Il diritto a ricevere l’assegno divorzile
Per quanto concerne i presupposti necessari di cui l’autorità giudiziaria deve verificare la sussistenza al fine di riconoscere a favore del richiedente il diritto a ricevere l’assegno divorzile e l’obbligo a carico dell’altro di corrisponderlo l’art. 5, comma VI°, legge n. 898 del 1970, fa riferimento alla mancanza ”di mezzi adeguati” ed all’impossibilità ”di procurarseli per ragioni oggettive”. Per quanto riguarda il primo elemento ci si può facilmente ricondurre a quanto già esaminato per l’assegno di mantenimento, ovvero la circostanza che il richiedente non sia in grado di mantenere, con le sue sole risorse, un tenore di vita analogo a quello goduto, o meglio potenzialmente godibile, in costanza di matrimonio ed una disparità tra le situazioni reddituali delle parti[9]. A questo presupposto si aggiunge poi la necessità di verificare che effettivamente il richiedente non abbia modo di procurarsi tali risorse per motivi oggettivi e non certo, quindi, perché non intenzionato a lavorare seppur avendone capacità e possibilità[10].

Sul coniuge richiedente grava l’onere della prova
Quest’ultima circostanza sembra essere quella che anche formalmente differenzia i presupposti necessari per il riconoscimento del diritto all’assegno di mantenimento da quelli per l’assegno divorzile. Nel primo caso, infatti, dovrà essere l’eventuale obbligato a provare che il richiedente l’assegno è in grado concretamente di procurarsi i redditi necessari a godere del medesimo tenore di vita avuto durante la convivenza coniugale mentre, nel caso dell’assegno divorzile, è l’ex coniuge richiedente la corresponsione a dover provare la sua impossibilità di procurarsi i mezzi necessari per ragioni oggettive[11].

Le “condizioni dei coniugi”
Una volta accertata la sussistenza in astratto del diritto alla corresponsione economica richiesta l’autorità giudiziaria deve necessariamente procedere alla quantificazione della stessa ed a tal fine vengono in rilievo tutti gli altri parametri indicati dalla norma in esame.
Per procedere ad una breve ma necessaria analisi dei criteri di quantificazione dell’assegno divorzile è opportuno sottolineare che il legislatore con una locuzione molto ampia fa riferimento alle ”condizioni dei coniugi” intendendo, secondo autorevole dottrina[12], non solo le condizioni economiche degli stessi ma anche le condizioni di salute, familiari, il contesto sociale ed ambientale di vita. Tra queste circostanze quelle che più spesso vengono richiamate in giurisprudenza con valutazioni non sempre chiare e costanti sono certamente l’instaurazione di una convivenza more uxorio, tanto da parte dell’obbligato quanto dell’avente diritto all’assegno[13], e le elargizioni che quest’ultimo riceve da parte dei parenti[14].

La colpa incide sul quantum
Per quanto riguarda poi le ”ragioni della decisione” sembra opportuno affermare che con le stesse si vuole far riferimento alle responsabilità del fallimento del matrimonio: se nella separazione l’eventuale addebito esclude automaticamente il diritto alla corresponsione economica lo stesso non può dirsi nel divorzio dove, invece, le ipotetiche ”colpe” possono eventualmente incidere solo sulla determinazione del quantum dell’assegno[15]. Tra gli ultimi parametri il legislatore pone ”il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune”[16] ed il ”reddito di entrambi”, il tutto da potersi infine valutare in relazione alla ‘‘durata del matrimonio”[17]. Per completare il discorso è importante evidenziare come la giurisprudenza ritenga pressoché all’unanimità che l’autorità giudiziaria non debba necessariamente far uso di tutti i criteri di quantificazione dell’assegno divorzile elencati dal legislatore potendo, infatti, nel rispetto delle peculiarità della fattispecie concreta tenere conto solo di quelli più rilevanti, utili e sufficienti alla propria decisione[18].

fonte: Il Sole 24 Ore

Il comportamento immediatamente successivo alla separazione può costare l’addebito Corte di cassazione – Sezione I civile – sentenza 8 maggio 2031 n. 10719

Ai fini dell’addebito conta anche il comportamento che il coniuge tiene subito dopo aver cessato la convivenza qualora costituisca una conferma dei “sospetti del passato”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 10719/2013, rigettando il ricorso di una moglie su cui gravava la dichiarazione di addebito per essersi allontanata dal tetto coniugale insieme ai figli per diversi mesi senza dare alcuna notizia.

Secondo i giudici l’allontanamento unilaterale e non temporaneo dalla casa coniugale unitamente ai figli minori deve essere ritenuto “una grave violazione dei doveri coniugali e familiari”. Del resto, “l’allontanamento dei minori, dall’altro genitore si è protratta per un non modesto periodo di tempo ed è stato realizzato anche in violazione dei provvedimenti assunti nel corso del procedimento separativo”.

“Tale complessiva condotta – argomenta la Cassazione -, caratterizzata dall’ingiustificate imposizione unilaterale di una condizione di lontananza dell’altro genitore dai figli minori, iniziata prima della notifica del ricorso separativo e protrattasi anche dopo tale adempimento processuale è ampiamente valutabile ai fini dell’addebito, anche dopo l’effettiva instaurazione del contraddittorio in quanto […] anche il comportamento tenuto dal coniuge successivamente al venir meno della convivenza, ma in tempi immediatamente prossimi a detta cessazione può rilevare ai finì della dichiarazione di addebito della separazione allorché costituisca una conferma del passato e concorre ad illuminare sulla condotta pregressa”.

fonte: Il Sole 24 Ore